Gli uomini, le donne, i paesaggi di Dina Del Curto, dall’emozione limpida e vivi di verità nel loro mondo lontano (Cina, America Latina, India, Siberia), muovono interrogativi sul senso di una vita colta nel suo essere da sempre o di un’esistenza vista nel suo farsi e dipanarsi quotidiano. Ma il dato reale (dei costumi, del lavoro e delle atmosfere), pur riconoscibile anche per la sottile e incantata differenza cromatica, sfuma nello sfondo neutro: tra il momento vissuto e quello rivissuto intercorre la distanza che induce la realtà a sottrarsi per divenire arte. «Per scrivere delle buone poesie bisogna avere dei ricordi. E bisogna dimenticarli... E bisogna avere la grande pazienza che tornino» fa dire Rilke al suo Malte Laurids Brigge. E tornano gli incontri come ricordi che chiedono parola: ciò che si chiama differenza è una differenza arricchente, che proietta altre vicinanze, mentre il paesaggio si fa background, piega interiore. Nascono da un tratto memoriale molti dei quadri di Dina Del Curto, dai suoi viaggi nel mondo. Un tratto essenziale, nel senso che il titolo ed il soggetto rimandano immediatamente ad una vita vissuta in un determinato contesto (India, America Latina, Ex Unione sovietica, Thailandia) ma con l'intento di avvicinarlo e non certo di "ritrarlo" o di semplicemente testimoniarlo: perchè all'artista interessa l'incontro di un altro/un'altra diversi nella positura (danza, lavoro, accoglienza del visitatore, costumi ed abiti) ma pervasi dalla stessa umanità, dello stesso vivere nel mondo. E là dove il vivere quotidiano è anche tremendamente difficile (si pensi alle ombrellaie, ai sonatori che devono attirare il turista, alle venditrici di fiori e di frittelle per la strada - per quelli che per noi, occidentali ricchi e strafalcioni ormai con il denaro, sono solo due soldi e che per loro sono il pane quotidiano -) traspare dignità e distacco: ossia il tocco di chi sa le differenze sociali e le difficoltà materiali ma non regala la propria identità nè tanto meno la vende. L'artista osimana dà i suoi soggetti i loro colori: con una gamma di sfumature e di contrasti da chiamare in scena una formazione ed uno sguardo, - già dai primi paesaggi degli anni cinquanta e a seguire dai volti degli anni ottanta, ecc.: lo si è visto nell'antologica osimana del 1996 -. che partono dall'esperienza emozionale, spirituale della realtà, resa accentuando i colori e l'incasticità del segno che li contorna. Da richiamare, cioè l'espressionismo figurativo, ma particolare, sui generis se si fa attenzione, per esempio, alla composizione direi classica delle figure nel quadro, all'atmosfera di non- tempo. Non è un caso e non è senza significato che Dina Del Curto, ricca ormai di mostre le più varie (collettive, come la Quadriennale, la Mostra d'Arte Contemporanea al Palazzo delle Esposizioni di Roma, al Salons des Nations a Parigi, ecc., e personali), ricca di riconoscimenti critici, continui la sua ricerca pittorica su tre linee di fondo: i paesaggi, la gente (le persone, anche singole), i fiori. Ossia sul colore e sul segno che i soggetti "rilasciano", nel loro farsi e vivere, a chi li "vive" dall'interno di una scoperta. Se la scoperta è ogni volta nuova, il volto, la figura, il fiore nel loro essere nuovi sono fuori del tempo pur essendo in uno spazio: si tratterà di isolarli nel clima di una nuova scoperta per accrescerne la portata, anche simbolica. Allora la sottrazione del soggetto alla realtà in cui è immerso rende quel soggetto a dir poco irreale: le Fioraie di Changmai (1998), le Fioraie di Maysore (1999), Calle e tulipani (1999), gli scorci di Osimo, i paesaggi marchigiani, gli uomini in processione, la Natura morta in riva al mare 2002) hanno solo un riferimento reale nel titolo. Per il resto (che è tanto, è il quadro stesso), le opere vivono della loro natura, ossia dell'arte che chiede e interroga o, seplicemente, si fa altro rispetto al punto di partenza per dire un altro punto di partenza. Dell'arte che è ricerca e va alla ricerca di un luogo non ancora trovato e sempre atteso. Maria Lenti
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